Les Misérables - La Recensione

Si trattava solo di una questione di tempo affinché "Les Misérables" diventasse, inevitabilmente, pellicola cinematografica. Il musical ispirato al romanzo di Victor Hugo, divenuto tra i più famosi al mondo e dedicato allo strato della popolazione povera, schiava del potere del Re di Francia nel corso della monarchia compresa tra il 1815 e il 1833, aveva il sapore di un opportunità troppo ghiotta per non essere afferrata e trascinata oltre l’ambiente “teatro”.

Ci ha pensato il premio Oscar per "Il Discorso del Re" Tom Hooper allora a prenderlo sotto la sua ala e a decorarlo con un tocco personale che lo avrebbe reso indimenticabile anche sullo schermo, arricchendolo con due sostanziali caratteristiche che lo staccano da qualsiasi altro musical visto al cinema negli ultimi anni. La prima, la sapevamo, è la scelta di mantenere nella versione definitiva le interpretazioni canore catturate in presa diretta, evitando quindi di registrarle nuovamente da zero, in studio, per raggiungere quell'effetto pulito e leccato come accade di solito. La seconda, la più influente, l'aver praticamente proibito agli attori la recitazione non-cantata: in poche parole non è consentita nessuna battuta a secco, si recita solamente attraverso i brani musicali.

Ora, se la prima caratteristica passa piuttosto inosservata (a meno che non si possiedano occhi ed orecchie esperte ed allenate), è meno facile abituarsi alle infinite, eccessive, interpretazioni canore che "Les Miserablés" accoda e scioglie l’una dopo l'altra. La potenza di un musical è senza alcun dubbio quella di emozionare amalgamando al meglio recitazione, canto e musica ma quando questo processo non è compiuto attribuendo al mix un anima o una svolta, che sia per il personaggio, per la narrazione o per entrambi, si rischia di mancare di efficacia. Nella pellicola di Hooper si canta qualsiasi cosa, sfiorando a volte persino il ridicolo e oscurando la possibilità di guadagnare in intensità ritagliando spazi in cui la recitazione torni alla maniera più sobria e più classica. Una politica tanto ferrea quanto pericolosa poiché tende ad appesantire il flusso degli eventi, provocando svariati alti e bassi in cui un momento prima si tocca l'apice della drammaticità e uno dopo si va dritti verso la noia.


A sovraccaricare ulteriormente la scena, i numerosissimi primi e primissimi piani utilizzati per amplificare l’emotività e l’espressività delle interpretazioni, ma che limitano, di conseguenza, l’uso dei campi lunghi e dei campi larghi laddove sarebbero stati più opportuni. Tale scelta registica, seppur coi suoi limiti, a lungo raggio si conquista però un'accettazione visiva, potenziando, decisamente, anche il fervore dei pezzi più corposi dell'opera. Anne Hathaway e Hugh Jackman diventano perciò coloro che da questa sperimentazione cine-musicale-suprema escono sicuramente con un bagaglio più ricco e allargato: la prima, nelle sue pochissime scene, dalla bravura arriva a spaccare addirittura in due lo stomaco dello spettatore, mentre il secondo, seppur maggiormente convincente nella parte iniziale nei panni del miserabile, conferma le grandi doti canore e teatrali che gli avevamo visto esprimere da presentatore nel corso della notte degli Oscar di qualche anno fa.

L’operazione cinematografica di "Les Misérables" tuttavia trafigge solamente per maestosità e superficie, scontando a caro prezzo una rappresentazione troppo anticonvenzionale e complice d’un ritmo fatto di eccessive intermittenze. Ciò condanna duramente la pellicola per quanto riguarda la graduatoria del piacere, ridimensionando un complessivo che probabilmente poteva essere assai più potente se adattato in vesti più sobrie e lavorato dalle mani di un regista più esperto e capace di Tom Hooper.

Trailer:

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